Georg Zuter e le luci del mezzogiorno.

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A ventitré anni, nel 1965, Georg Zuter è uno dei giovani artisti tedeschi più promettenti della sua generazione, mentre è allievo, dopo gli studi alla Werkunstschule di Dortmund, della Hochschule fuer Bildende Kuenste di Berlino. In quegli anni la sua era un’astrazione assoluta, fatta di timbri netti e di forme essenziali primordiali, pienamente nella più nobile tradizione tedesca di sperimentazioni razionali sul colore e sulla percezione. L’incontro con l’Italia e con i colori del Sud, però, sarebbe stato decisivo nell’orientare il suo discorso espressivo, portandolo a maturare una sensibilità visiva su una tavolozza impensabile, probabilmente, in un paese del nord Europa. Nel 1972, infatti, Zuter approda a Napoli con una borsa di studio del Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD): da allora non ha più abbandonato la penisola, alternando periodi in Germania ma residendo stabilmente in Italia. Nel 1973, in particolare, arriva a Ginostra, nell’isola di Stromboli. I trent’anni vissuti lì sono stati una lunga stagione passata lontano dalle mostre e dal confronto con l’ambiente artistico. Una pausa di silenzio in tutti i sensi: riprenderà la vita del mondo artistico, di fatto, una volta arrivato a Bologna nel 1999, sebbene non manchino, anche in quel lungo lasso di tempo, partecipazioni eccezionali come quella alla Quadriennale di Roma nel 1975. A Ginostra Zuter scopre una nuova dimensione temporale o, meglio, un ritmo di vita ben lontano dalla frenesia moderna. Tuttavia, per vivere fa i mestieri più disparati. «Inizialmente» dice in un’intervista di pochi anni fa, «credevo di poter lavorare e dipingere. Non è così, la pittura richiede una concentrazione e una dedizione totale». Lì, infatti, «il tempo passa in modo diverso», ma soprattutto, racconta sempre l’artista, «nell’isola c’era il silenzio, la luce a tonnellate e lo spazio», che saranno gli elementi decisivi della sua evoluzione artistica. Se ne accorge Giuseppe Servello, in una recensione su Un geometrico colore meridiano: «quello che in apparenza sembra fermo e immoto finisce per essere mosso da interno calore. Il fatto meno evidente ma forse più raggiunto da Zuter è questo: aver compreso come le tinte del Mezzogiorno non sono per nulla gridate e accese fino all’esasperazione, bensì musicalmente glissate e fra loro teneramente consonanti» (“Giornale di Sicilia”, 26 febbraio 1978).
Il critico aveva già colto, vedendo le opere della personale alla galleria La Persiana di Palermo, che il suo lavoro procede per accordi, per armonie di geometrie con qualche punto di dissonanza cromatica di improvvisa accensione, sulle reazioni dell’iride alle campiture, fra punti brillanti ed aree totalmente attutite. Della Sicilia, in fondo, avrebbe potuto ricevere la suggestione di un colore più intenso, sanguigno come nelle tavolozze di molti artisti siciliani. Al contrario, invece, deve essere stato colpito dal colore dorato della terra e delle piante sotto il sole della canicola. Zuter, infatti, è fra i pochi pittori capaci di fare una pittura astratta geometrica utilizzando le ocre: è fra i pochi a saper accordare i marroni e i beige con il bianco e con il colore, con un effetto di rasserenante equilibrio. È proprio un gioco di sbalzi, di contaminazioni: come in tutti i giochi percettivi, le campiture si condizionano a vicenda, e il colore provoca una vibrazione che sollecita la vista.
Servello, poi, si era reso conto che Zuter, «partendo dalla grafica e in particolare dalla composizione tipografica si è rivolto poi con molta attenzione allo studio dei volumi e delle immagini in cui pieni e vuoti ottengono miracolosi equilibri. Poi il sole del mezzogiorno italiano lo ha condotto a semplificare certe strutture fino a stenderlo nella sua purezza assoluta e accompagnarlo ad una linea altrettanto pura, che a sua volta si chiude in una forma geometrica: il quadrato, il rettangolo, il rombo (parente stretto del quadrato, in cui però gioca effetti differenti di spazi» (testualmente ripreso anche da Chiara Pilati su “il Domani”, 14 marzo 2003). Da allora, infatti, come annota nel maggio del 2005 Alberto Olivetti, docente di Estetica all’Università di Siena e a sua volta pittore, «i contorni non ammettono alcuna deroga ad una linearità perfetta, netta come il colpo d’una taglierina».
Non sono del tutto sicuro che si possa davvero parlare di un incontro “forma-colore”, come pure è stato affermato: questo implicherebbe una tangenza fra identità autonome, mentre qui la forma non assume mai una posizione di soggetto, ma è piuttosto un confine tracciato sul piano. Nella pittura di Zuter, infatti, non c’è racconto, né un vero rapporto figura-sfondo. Solo in alcuni casi, specialmente finché ha inserito forme ovoidali nettamente staccate dal resto della composizione, Zuter ha focalizzato l’attenzione su un “protagonista” visivamente incisivo. Ma nella maggior parte dei casi, nella sua pittura non sussiste questo genere di gerarchia, alla quale preferisce un bilanciamento di pesi visivi complementari disposti sul piano. D’altra parte, il quadro è un oggetto che esalta visivamente la bidimensionalità del campo pittorico collocandosi esclusivamente nella sfera degli oggetti visivi: nessuna concessione a effetti di profondità spaziale, bensì relazione fra profili che delimitano un contorno, entro i quali si circoscrive una zona cromatica che si espande (visivamente) nell’area che ha a disposizione, come in uno smalto cloisonné.
L’assenza di racconto è acutamente messa a fuoco da Alberto Veca, da sempre attento a una definizione dell’oggetto-quadro nei suoi tratti materiali e nella sua concretezza di linguaggio. Qui, infatti, non è presente una situazione dinamica (la narrazione) ma un quadro che «si propone come “stazione” perentoria dell’immagine fissata sulla tela, in una evoluzione, però, che si può immaginare continua, diversamente cangiante» (Incontro di forma colore, Milano, Galleria Scoglio di Quarto, 16 gennaio-5 febbraio 2008).
Si è esagerato un po’, forse, nel parlare di calcoli e di misure: si rischia di fraintendere il suo lavoro se non si specifica che “calcolo” non significa programmare anticipatamente tutta l’opera prima di passare alla fase esecutiva. Preliminarmente, infatti, Zuter si limita a fare dei piccolissimi disegni in bianco e nero, in cui prova la composizione, ma nei soli toni del grigio. Veca, non a caso, aveva riconosciuto il valore centrale del disegno nel processo ideativo, come strumento di «definizione del campo senza allusioni naturalistiche, peraltro legittime anche in una ricerca linguisticamente astratta, ma con una attenzione agli aspetti che una “visione” non ingenua può indagare, nella scia di una via “concreta” all’arte plastica dalle radici indubbiamente nobili, soprattutto nella cultura di lingua tedesca». Il pittore non ipotizza nemmeno, nel bozzetto, i colori su cui poi andrà a lavorare. Al contrario, tutta la ricerca del giusto colore, calibrato sulla giusta intonazione timbrica e sulla giusta saturazione, avviene sulla tela non per calcolo preventivo, ma per prove successive. Egli inizia infatti colorando un’area contrassegnata, a cui poi accostarne un’altra cercando gradualmente di armonizzarle. La pazienza ascetica di Zuter sta proprio nel procedere per velature, nel porre strati su strati, talvolta fino a sedici sovrapposizioni per trovare la sfumatura desiderata (Olivetti parla a proposito di «controllo dei limiti estremi d’ogni pensabile fattura grazie a reiterate prove, o varianti, da lui intraprese all’insegna della esecuzione assoluta»). È proprio questo lavoro lungo e meticoloso, infatti, che conferisce alla pittura quella compattezza, quella solidità non comune nell’astrazione geometrica.
Sembra andare in questa direzione un’osservazione di Alberto Olivetti, in un altro scritto composto sempre nel 2005: «La pittura di Zuter non ammette incongruenze e gli elementi che la strutturano tutti vi risultano sottoposti ad interne cogenze. È all’autonomia di un principio di misurazione che Zuter demanda il compito di individuare i rapporti di grandezza e impronta i calcoli che assicurano la necessaria compatibilità ai singoli morfemi» (maggio 2005). «Dalla perentorietà dell’antitesi» prosegue, «si passa all’inchiesta sulla natura della figura, sul suo ruolo rispetto alle altre figure occorrenti».
Il rigore della composizione si stempera nella luce del mezzogiorno: Zuter non è un pittore dogmatico, come spesso all’astrazione geometrica accade di essere, perché il colore attutisce quell’assoluta nitidezza del confine fra zona e zona, rendendolo percettivamente sensibile. Nel dominio delle ortogonali si inserisce la curva, ma come elemento di raccordo, non di rottura, fra campiture che si toccano, e questa unione all’insegna del colore-luce, talvolta timbrico ma soprattutto tonale, si dispiega come un canto di ritmi e di pause: è un’armonia fatta di soli toni pieni, senza vuoti.

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