La voce della testuggine
di Virginia Fovi |
Chiamata dai rivieraschi semplicemente Isura (“l’isola” in dialetto), la Gallinara, adagiata tra le onde del tratto di mare tra Albenga ed Alassio, è solo un puntino nelle carte geografiche, ma con i suoi 11 ettari di superficie e la sua forma che ricorda una testuggine, con i suoi naufragi, i suoi santi, l’abbazia scomparsa, il suo lato mediterraneo e il suo lato africano, il cimitero e la chiesa, il cristianesimo e i saraceni, racconta storie, miti e leggende.
Dopo aver pagaiato per circa un’ora, l’enorme testuggine illuminata dalla luce dell’implacabile sole di agosto mi appare simile a un miraggio. Fa impressione pensare che qualcuno abbia scritto secoli di storia vivendo, combattendo, pregando o sbarcando in insenature e scogliere che ora si possono solo guardare, ma non toccare. L’isola, infatti, è inaccessibile: nel 1988 è stata dichiarata parco regionale protetto, pur rimanendo sempre proprietà di privati.
Unico beneficiario delle sue bellezze è un guardiano, che vive stabilmente sull’isola e che ha l’arduo e prezioso compito di preservarla dagli incendi e dall’agguato dei turisti, sempre più numerosi, specialmente nei mesi estivi, provvedendo alla manutenzione dei chilometri di sentieri che la attraversano e all’integrità del patrimonio culturale e botanico che ne costituisce il cuore.
Approdo di marinai fenici, greci e romani, la Gallinara ospitò nel Medioevo uno dei più importanti monasteri benedettini dell’Italia settentrionale, per poi essere trasformata in punto strategico di avvistamento contro le scorrerie saracene (ne è testimone il torrione bianco di forma circolare, visibile dal mare e dalla via Aurelia, costruito nel 1586 per vegliare sulle città costruite sulla costa) e, negli anni della seconda guerra mondiale come base militare (l’isola ha un cuore di gallerie costruite da un battaglione della Wermacht, una rete sotterranea che conduceva i soldati a numerose piazzuole per mitragliatrici antiaeree).
Agli anni ’60 risale, invece, il piccolo porto, costruito negli stessi anni in cui l’isola venne raggiunta per la prima volta da corrente elettrica e acqua potabile attraverso cavi sottomarini che, nel corso degli anni, sono stati divelti dai pescherecci, portando così l’isola nuovamente indietro nel tempo.
Qui, sotto gli occhi di tutti, storia e presente convivono, avvolti nella leggenda: il piccolo cimitero di fronte al mare che offre tuttora riposo ai vecchi abati, il porticciolo incontaminato, la casetta del guardiano, con la sua barca e i suoi cani, il cancello bianco che porta alla parte più alta dell’isola, gli abbandonati terrazzini liberty di Villa Diana, il salone dove si specchiano ancora le due enormi anfore del I secolo d.C recuperate dall’”Artiglio” di Nino Lamboglia nel 1950, il salone del bigliardo, i rami di glicine e una vecchia lapide su cui è riassunta, in latino, non solo la storia della Gallinara, ma quella della sua inappartenenza e di quella di tutte le cose. : “Spes et fortuna, valete./Sat me luditis, ludite nunc alios”. “Mi hai già fatto divertire abbastanza/diverti ora qualcun altro”.
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