I tuoi scarabocchi ispirano solo pena!

Camminando per le vie di Milano resto colpita da un cartello scritto a mano affisso su un portone che maledice un autore di tag.
La gente è stufa di  trovarsi i muri delle case imbrattati, le serrande violate da tag, la città degradata da scritte senza senso, lasciate di corsa e con rabbia.
Qualcuno li chiama graffiti e, da tempo e anni c’è chi si chiede se questa è arte, se va punita o tollerata.
A metà degli anni ‘80, vivevo a New York e la città era invasa dai graffiti che ricoprivano i vagoni della Subway e i muri. (Chi ricorda il film “The Warriors”?) Criticati dai più erano, però, soggetti di cartoline, come i punk di Londra, e simbolo della vivacità della Grande Mela. Ricordo una notte, in compagnia di amici writers afro e ispanici, un fantastico tour per le zone del Lower East Side dove, tra muri scrostati a ridosso di vecchie fabbriche abbandonate e vicoli bui pieni di rifiuti e topi, campeggiavano colorate e meravigliose scritte: un racconto di strada, un disperato urlo di vita. Nomi, all’inizio erano nomi. I “graffitari” scrivevano il loro “nick name” e firmavano il loro passaggio, come i cani con l’urina. Nella periferia urbana un mondo di giovani emarginati, con il loro linguaggio di strada, voleva lasciare un’impronta della loro esistenza ad una società metropolitana che non li considerava. Meraviglioso vederli all’opera con una tecnica per nulla facile. Gli ugelli delle bombolette venivano modellati con il fuoco dell’accendino, per ottenere il getto e la potenza desiderata, la mano fungeva da maschera per dosare gli strati, le ombre e la sovrapposizione dei colori. Ne uscivano meraviglie, forse non opere d’arte ma di certo i muri insignificanti potevano parlare e la bellezza di New York deve qualcosa a questo movimento espressivo come al rap, fenomeno musicale che accompagnava i gruppi degli artefici al lavoro.
Arte? Segno? Degrado? Spesso nascono così, forme interessanti, dal basso e non dalle accademie, perché sono espressione di un pulsante cuore che vive ed esprime il sentimento del momento.
Da una parte gli anonimi graffitari e dall’altra i quotatissimi Basquiat ed Hering: cos’erano questi se non graffitari? Quest’ultimo affermava “un muro è fatto per essere disegnato, un sabato sera per far baldoria e la vita è fatta per essere celebrata”.
I suoi quadri ora valgono centinaia di migliaia di dollari e le gallerie hanno pian piano tolto  il graffito dalla strada, mercificandolo e collocandolo nelle sale dei collezionisti e dei musei.
Qui, in Italia, i “writers” sono arrivati nei primi anni ‘90 con un bel gruppo di esponenti come Atomo, Babiria, Rendo. Oggi, però, sono una moda di provinciale importazione come i pantaloni al pube. Si è perso il senso del bello, come in tutto e rimane il senso di rabbia, di protesta, a volte di vandalico teppismo.
In fondo tutto quello che non è più espressione del proprio tempo appare incomprensibile e il tag torna ad essere espressione vuota e di frontiera. Ma occorre assolutamente distinguere le scritte vandaliche senza senso che imbrattano i quartieri e i disegni fatti con tecnica e messaggio che spesso abbelliscono i muri di periferia, sottopassi squallidi, saracinesche abbassate e ci regalano una veloce traccia di colore e di esistenza.

 

 

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