Un saluto a Paolo Rosa e un ricordo.
Erano tempi, quelli che molti hanno cercato di cancellare nell’epilogo degli anni di piombo, dove il terreno fertile esalava tracce di futuro. Era la fine degli anni settanta e quello che oggi è un frutto maturo e forse troppo, allora era un seme dell’immaginazione di chi credeva che il domani si potesse inventare.
Qui nasce il lavoro di Paolo Rosa, con la sua ricerca, la sperimentazione, le nuove tecnologie, in una Milano che era un brulicare di artisti e atelier, di luoghi di ritrovo e di progetti. L’interazione con il sociale in un’ottica di contro informazione e la possibilità di tracciare nuove vie non soltanto nell’arte, erano il motore del senso del lavoro creativo e lo spirito che connetteva gli artisti così fluidamente dava vita a quella ricchezza che leggiamo ancora nelle opere e nel pensiero di chi quegli anni li ha vissuti a pieno. Paolo era allora un giovane insegnante del Liceo Artistico di via Hajech, scuola che ho avuto la fortuna di frequentare e che era un vero laboratorio di idee aperto all’esterno con una singolare visione critica, grazie soprattutto agli insegnanti come lui. Qui egli ha dato vita, insieme ad altri docenti, ad una didattica sperimentale con laboratori mirati ai nuovi linguaggi, ai nuovi media e alle nuove tecnologie. Tecnologie che oggi fanno sorridere ma che uscivano dall’accademico per dialogare con un mondo in profonda e repentina evoluzione anche in un’ottica di impegno sociale e politico. Insomma una scuola che era parte attiva e integrante del dibattito artistico e culturale del suo tempo.
Nel viaggio attraverso i decenni successivi che hanno condotto ad una fruizione puramente estetizzante dell’immagine e dell’arte, molta di questa esperienza collettiva si è persa lungo il percorso ma Paolo Rosa resta uno dei pochi che ha continuato con profonda coerenza il suo lavoro e il suo impegno con una pura capacità di rinnovarsi senza mai perdere l’ originario motore e continuando a condividere con altri la sua esperienza. Ed è proprio forse il suo pensiero e la sua concezione dell’arte, interattiva, multimediale e relazionale, per certi aspetti già vicina alle forme più liquide e immateriali dell’oggi, che l’ha portato, insieme ai suoi compagni di Studio Azzurro, ad un riconoscimento artistico pieno e oltre frontiera. Ricordo di averlo incontrato l’ultima volta davanti alla sua opera per la Santa Sede alla Biennale di Venezia, gentile ed umile come sempre, così distante dall’apparire sfacciato di tanti grandi artisti di oggi. Queste sue qualità sono rimaste inalterate negli anni, nella mia mente e nel ricordo di tantissimi che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di aver condiviso con lui un periodo storico indimenticabile. Grazie Paolo.
La foto nell’articolo è di Fabrizio Grassi
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