Vermeer dei poeti

Più di altri pittori del passato, Vermeer sollecita la penna dei letterati. Dev’essere, probabilmente, per quel misterioso prodigio luminoso che, posandosi sulle cose, dona loro un’apparenza di semplicità domestica. Non accade nulla (o nulla di epico e clamoroso) nei suoi piccolissimi dipinti: il pittore coglie la sospensione muta di quello stato di attesa in cui sta per accadere qualcosa. In realtà, lo sguardo acuto di Daniel Arasse ha da tempo insegnato che Vermeer è tutt’altro che un pittore di semplicità feriale, smontando il complesso meccanismo fenomenologico sotteso alle sue composizioni e mostrando come questa aura di mistero costituisse lo scarto poetico intenzionale con cui smarcarsi dalla coeva pittura di genere. Come ha mostrato la recente mostra romana delle Scuderie del Quirinale, infatti, egli non fa che lavorare su temi consueti nella pittura olandese del suo tempo, ma trattandoli con un “non so che” che ha sempre destato un fascino enorme: fa testo, per ricordare un nome per tutti, la centralità di Vermeer nel grande capolavoro di Proust. Tutto questo, infatti, non impedisce che su quella soglia di attesa il fruitore costruisca una propria storia, come fa Sylvie Germain nel suo minuscolo libro delle edizioni romane Elliot: in queste poche pagine, che si leggono con il piacere intimo e riservato dei libri da tasca, si assiste alla suggestiva trascrizione di un’esperienza di fruizione. Davanti ai quadri, o alle riproduzioni, la Germain medita sul senso della pittura e, soprattutto – anche se talvolta con qualche eccesso di simbolizzazione, sul senso delle immagini. Anche per lei, quasi inevitabilmente, i quadri di Vermeer sono un racconto di luce e di spazi definiti dalla luce. Su questa luce ha parole di grande suggestione. Riguardo al famoso Lo studio del pittore, osserva che «non è riducibile a una pittura di storia; è un canto visivo, una risposta che dialoga con la voce totalmente nuda della luce. Un dialogo tra il temporale e l’eternità» (p. 15). Su questo dialogo silenzioso, infatti, prende forma «lo spazio mentale costruito dalla luce si approfondisce […] d’un altro spazio, ancora più sottile e inquietante: uno spazio spirituale» (p. 21).
Ma l’anima dell’autrice, che attraversa i territori della poesia quanto quelli della narrativa e della filosofia, non poteva essere insensibile verso le numerose “donne sole” di questi piccolissimi dipinti: sono donne “senza storia”, anzi senza voce. Addirittura, annota, «tutti i ritratti di giovani donne dipinti da Vermeer  non esprimono altro che questo calmo e profondo stupore di fronte al lontano Oriente del mondo. E questo stupore è anche tale da non prender vita in una questione precisa; resta stupore, meraviglia, ascolto e sogno. Cioè avviene perché i ritratti nell’opera di Vermeer  non sono dei veri ritratti, sono ritratti senza volto» (p. 30). Frattanto, essere sono donne giovani ma non soggette al tempo, ma non perché abitanti di un Iperuranio esterno alle coordinate dello spazio-tenpo, quanto perché soggette a una propria atemporalità: «la loro solitudine è un regno in cui sono contemporaneamente regine ed esiliate» (p. 31).

Sylvie Germain, Vermeer, Roma, Elliot, 2012

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