E’ tutto un crescendo
L’appuntamento con l’arte è servito: Miart, 27a Fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea di Milano, torna alla grande. Infatti, il titolo di questa edizione è Crescendo come metafora per indicare le aumentate adesioni, ma anche l’instaurato rapporto con la città durante la Milano Art Week e con le iniziative culturali in collaborazione con Triennale e Fondazione Nicola Trussardi. Le gallerie tornano ad interrogarsi sul loro ruolo di produzione culturale cercando di colmare il gap con i cittadini e il territorio. Ma, quando si varca la soglia di viale Scarampo, dove ha sede la fiera, l’impressione è che gli eventi più importanti accadono fuori e qui restano gli espositori che non si distaccano dal modello classico di esposizione.
Il pubblico è tanto, anche se decisamente agè, con uno stile un po’ naftalina come alcune opere piazzate ogni tanto nel percorso e tirate fuori dai bui caveau.
Si entra subito nella sezione Emergent in cui spiccano lavori realizzati con differenti materiali e la cui combinazione spesso produce un forte effetto kitsch provocatorio: manichini usurati di plastica e materiali organici, mani di gomma che escono da pareti porgendo fiori, teche con oggetti feticcio, simil lampadari di vetro e corda come quelli proposti dall’artista svizzera Maya Hottarek. Notevoli le opere in tessuto dell’artista sudcoreana Sang A Han, ma il percorso è dominato dalle tante opere con scritte su supporti e misure diverse: mementi al neon, lettere sagomate, scritte effetto grafica americana anni ‛70, però nessun graffito né alcuna ispirazione alla street art. Ovunque la parola emerge e ti segue con tutta la sua fisicità e dimensione noncurante del significato che veicola, perdendosi nel gesto artistico e nella tecnica. Talvolta appare qualche opera di Emilio Isgrò con le sue parole cancellate, quasi a fare da contraltare a questa invasione.
Belli gli arazzi di Abdulaye Konaté proposti da Marella Gallery, ma anche le grottesche figure antropomorfe di collane in materiale vegetale realizzate da Chiara Camoni e il groviglio orientale pendente di Jacob Hashimoto. La pittura talvolta bussa timida, sicuramente la figurazione è l’unico linguaggio che avanza prediligendo soggetti colti in attimi rubati, come nelle opere di Alex Katz ma anche in quelle più recenti di Danilo Buccella e nei Mangiatori di angurie di Aldo Mondino nello spazio di Umberto Benappi. Colpisce, però, come le figure siano sempre distorte, spesso deformi, quasi un figurativo che a tratti nega sé stesso. Entra in scena anche la contaminazione tra arte e design con corner che paiono anticipare l’imminente e più famosa Design Week, sedie vintage in pelo di vacca, lampadari Venini e opere di designer come Branzi e altri che sembrano note un po’ stonate.
Talvolta si incappa in gallerie blasonate con proposte di artisti primo Novecento come Pietro Dodero che, in mezzo a tutto questo rumore visivo contemporaneo, sembrano far parte di un altrove. Ma davanti al bellissimo volto della ragazza che dorme nel suo dipinto L’alba, ci si accorge di colpo di tutta la stanchezza che provoca questa abbuffata visiva difficile ancora da decifrare e da accogliere con un senso comune. Non va dimenticato che queste, in fondo, sono le proposte delle gallerie e non una mostra di arte contemporanea. Quello che conta e racconta l’arte oggi accade soprattutto fuori, negli eventi, nei luoghi di cultura, negli studi degli artisti.
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