Expo, arte e spending review. I nostri (tanti soldi) ai soliti noti: Celant e Arte povera.

Sono iniziati i fermenti per l’Expo milanese e, tra indagati e falsi appalti, non si smentisce la logica tutta italiana di dire e contraddire tutti i buonigermano-celant-heiner-284952_tn propositi. La famosa logica della “spending review” che chiede sacrifici agli italiani e taglia tanta cultura e iniziative e la trasparenza degli appalti in fatto di arte e cultura inizia male. L’incarico al Critico Germano Celant di ben 750.000 euro più IVA per “la curatela e la direzione artistica dell’Area tematica Food in Art” lascia di stucco. Qui vanno a finire i nostri soldi oltre a foraggiare la solita “Arte povera” della quale ne abbiamo le tasche zeppe. A tal proposito pubblico la lettera aperta di Demetrio Paparoni alla “crew” dell’Expo apparsa anche nelle maggiori testate d’arte.

All’attenzione del Signor Sindaco di Milano, Avv. Giuliano Pisapia, del Commissario unico dell’Expo di Milano, Avv. Giuseppe Sala, del Commissario governativo per L’Expo Dott. Raffaele Cantone.

La notizia è talmente incredibile che per mesi si è pensato che fosse la fantasia di un buontempone: per “la curatela e la direzione artistica dell’Area tematica Food in Art”, da realizzare nell’ambito dell’Expo di Milano, al critico Germano Celant verranno corrisposti 750.000 euro più IVA. La cifra, fuori da ogni ragionevole parametro, è stata assegnata con una “procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando”. Il contratto, firmato il 7 marzo 2013, è stato accompagnato da un anticipo di ben 292.000 euro. Giusto per comprendere quanto spropositata sia una somma del genere basti pensare che, per dirigere una rassegna complessa come la Biennale di Venezia, Massimiliano Gioni ha percepito 120.000 euro, e che la stessa cifra è stata stanziata dalla Biennale per il nuovo curatore, Okwui Enwezor, per un incarico che include tutto il lavoro che farà dal momento della nomina alla chiusura della manifestazione. Non si fa fatica a capire che la curatela di una “area tematica”, per quanto impegnativa possa essere, non potrà mai comportare più lavoro di quanto ne comporti l’organizzazione della Biennale.
Sarebbe stato corretto fornire ai cittadini, sul sito dell’Expo, le motivazioni e i nomi di chi ha proposto, avallato e votato l’assegnazione di una simile cifra in un momento in cui si chiedono agli italiani sacrifici e si tenta di restituire al nostro Paese una credibilità internazionale che, a giudicare da cosa sta accadendo attorno all’Expo, sarà sempre più difficile conquistare. C’è un gran chiacchierare attorno a questa vicenda. Tra le tante chiacchiere gira quella che tale cifra sarebbe giustificata dal fatto che il critico avrebbe trovato personalmente degli sponsor per la mostra. Vero? Non vero? Non saprei. Se fosse così sarebbe stato più corretto fargli due contratti, uno come agente e uno come curatore. Spero in ogni caso che non si voglia avallare la tesi che chi porta denaro all’interno di un Ente pubblico poi possa pretendere che lo stesso Ente gli riservi un trattamento di favore. Sarebbe come affermare che se un ricco presidente del consiglio versasse come contributo personale diversi miliardi di euro nelle casse dello Stato, facendoli diventare denaro pubblico, potrebbe poi gestire quei soldi come se fossero i propri. È legittimo che un privato faccia del proprio denaro quel che ritiene opportuno, non lo è che dei privati possano condizionare la gestione di denaro versato nelle casse dello Stato.
Resta il fatto che 750.000 euro non sono stati dati come percentuale sugli importi ricavati dagli sponsor, ma per curare una mostra. Non c’è impegno o spese personali da sostenere che possano giustificare una parcella di quel tipo.
Purtroppo la sensazione sgradevole che si ricava da questa vicenda è che ci troviamo dinanzi ai metodi della vecchia politica. Possibile che non si comprenda che, a forza di elargire cifre sproporzionate a personaggi in auge dagli anni della Prima Repubblica, si sta consegnando l’Italia a una deriva qualunquista? È una buona cosa che si sia tornato a parlare di “questione morale”, ma è auspicabile che chi ha il potere di farlo faccia seguire i fatti alle parole. Diversamente la sfiducia nelle istituzioni continuerà a crescere.
Non sono così ingenuo da pensare che si possa arrivare a chiedere al critico di restituire i 290.000 euro avuti come acconto per il suo prezioso, inestimabile e ineguagliabile lavoro, anche se sarebbe giusto farlo. Spero si possa invece intervenire per fare chiarezza su questa vicenda. Tenendo magari a mente che in Italia ci sono pensioni da ottocento mila euro al mese; che Pompei cade a pezzi; che la giovane arte italiana è ormai inesistente all’estero, proprio grazie ai mandarini del sistema dell’arte italiano che promuovono solo se stessi; che il direttore della galleria degli Uffizi di Firenze guadagna 1.890 euro al mese e che a Firenze le sale dello stesso museo non sono adeguatamente deumidificate per assenza di fondi.

Distinti saluti, Demetrio Paparoni

Demetrio Paparoni ha recentemente pubblicato con Ponte alle Grazie Il bello, il buono e il cattivo / Come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni. Un capitolo del libro, dal titolo “L’Italia che ha dimenticato di essere stata fascista”, indaga inquietanti comportamenti, nell’ambito della cultura, dell’attuale classe politica italiana, da Silvio Berlusconi e dall’ex ministro Sandro Bondi all’ex assessore del Comune di Milano, Stefano Boeri.

 

 

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